Come la pioggia - N. 5
Ricordi che rimangono nel cuore: La convivenza
alla Casa dei Comboniani in Via delle Missioni Africane
Vivere insieme non significa solo condividere uno spazio fisico, ma creare un luogo di incontro tra esperienze, storie
e tradizioni diverse. Ce ne siamo accorti a fine agosto, quando gli operatori che seguono la convivenza tra giovani
e persone rifugiate alla Casa dei Comboniani, in Via delle Missioni Africane, hanno organizzato una cena per salutare
chi ha concluso il proprio percorso e dare il benvenuto a chi prenderà il loro posto. Un momento di scambio
e conoscenza reciproca, arricchito dai sapori dei biryani, dei samosa e dei galub jamun.
Per parlare di tutto questo, abbiamo intervistato Padre Tullio, responsabile della comunità dei Comboniani di Trento,
i quali convivono da alcuni anni con un gruppo di giovani e persone rifugiate, dando massima espressione all’idea
di “Chiesa che accoglie”.
Padre Tullio, partiamo dall'inizio. Chi sono i Comboniani e cosa significa per voi l'accoglienza?
I Comboniani sono una comunità missionaria nata tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, ispirata ai precetti di Daniele Comboni. Comboni ha dedicato la propria vita all'Africa, in un periodo in cui il continente era considerato solo una terra da sfruttare e colonizzare. Un tempo forse non così diverso da oggi, dove soprusi e predazioni continuano a devastare intere comunità.
La visione di Comboni era rivoluzionaria per i suoi tempi: "Salvare l’Africa con l’Africa". Promuoveva l'idea che fossero le persone del posto a costruire il proprio futuro, non i colonizzatori venuti a razziare le loro terre.
Nel contesto attuale, in cui spesso sono le persone a venire qui da noi in Italia, accogliere significa applicare la stessa intuizione. Dobbiamo incontrare l'altro, costruire relazioni, e permettere a ognuno di contribuire a costruire un futuro migliore insieme.
La migrazione e l’accoglienza sono due temi centrali nel piano sessennale dei Comboniani, uscito recentemente.
Come è nato il rapporto con il Centro Astalli e come si è evoluto nel tempo?
Quando sono arrivato qui nel 2018, il progetto COMBO aveva cominciato a muovere i primi passi grazie al lavoro del mio predecessore. L’idea era di creare uno spazio condiviso tra Comboniani, studenti e persone rifugiate, un ambiente dove conoscersi e arricchirsi reciprocamente. Devo dire che fin da subito si è instaurata una buona sintonia con il Centro Astalli. Con il tempo, abbiamo fatto ulteriori lavori per ristrutturare gli spazi, svuotare le camere e adattarle alle esigenze della convivenza.
In Via delle Missioni Africane convivono tre comunità: Comboniani, giovani e persone rifugiate. Come si svolge la vita quotidiana?
La convivenza funziona bene, anche se le dinamiche cambiano in base ai tempi e alle persone che ne fanno parte. Ci sono stati anni in cui la vita insieme era quasi idilliaca: nascevano incontri spontanei e si percepiva una forte voglia di condividere esperienze insieme.
La pandemia ha cambiato un po' le cose, perché ha limitato i contatti e complicato la comunicazione tra le persone. Ma anche in quei momenti difficili, la terrazza esterna è rimasta un luogo di incontro. Parlavamo da un piano all’altro, ci vedevamo e scambiavamo qualche battuta, seppur a distanza di sicurezza. Ancora adesso, a distanza di anni, percepisco tra i ragazzi e gli ospiti qualche strascico causato dalla pandemia.
In ogni caso, nonostante le difficoltà, la condivisione di vite e di esperienze arricchisce tutti.
Cosa ti ha arricchito personalmente in questi anni di convivenza?
Per me, stare con le persone è essenziale. Se non ho contatti con la gente, sto male. Questo progetto mi ha permesso di vivere in modo aperto e di arricchirmi attraverso le relazioni quotidiane, anche se non è sempre facile far coincidere i tempi e gli impegni di tutti. Quando succede, esco a fare una passeggiata, cerco di parlare con chi incontro. Mi sento a mio agio quando posso condividere momenti, parlare con qualcuno…
Quali sono le sfide più difficili legate all’accoglienza e come le affrontate?
Penso che le difficoltà principali siano legate alle possibilità di integrazione e alla lingua. Ultimamente sono arrivate in Trentino molte persone dal Pakistan e dal Marocco. È normale, quindi, che tanti di loro passino le giornate con i propri connazionali. Una prospettiva che riduce le loro possibilità di immergersi nel contesto locale, di imparare la lingua, di conoscere l’altro. Poi c'è una “fatica” personale: io parlo francese, swahili e lingala, ma qui da noi la maggior parte degli ospiti parla inglese o urdu.
Abbiamo cercato di affrontare queste sfide incoraggiando il dialogo e creando momenti di incontro, anche se non è sempre facile. A volte capita che alcune persone arrivano qui così provate dalle difficoltà del viaggio, dalle violenze della rotta balcanica, che si chiudono in sé stessi o preferiscono riposare tutto il giorno per evadere dal pensiero e dalle sofferenze. In ogni caso, quando c’è dialogo, se c’è scambio, riusciamo a superare ogni barriera linguistica.
C’è un’esperienza che ricordi con particolare affetto?
Più che un singolo episodio, direi che sono soprattutto i ricordi che rimangono nel cuore: l’intreccio di culture, le amicizie. Negli anni, con alcuni giovani, con alcuni ospiti, si sono creati legami che vanno oltre la semplice convivenza.
Ricordo con affetto Amidou, un ragazzo della Guinea Conakry, che si ferma sempre a chiacchierare con me quando ci incontriamo in città, o Tassim, che trasmette sempre una grande empatia nonostante non parli molto bene la lingua. Sono le relazioni, i ricordi, costruiti giorno dopo giorno, che rappresentano il vero senso di questa esperienza.