La storia di Kiran, mediatrice culturale del Centro Astalli Trento
La nostra associazione è fatta di persone, ognuna diversa, ognuna col suo importante ruolo. Sono loro a mandare avanti ogni giorno i nostri tanti progetti, ad accompagnare e aiutare le persone rifugiate o richiedenti asilo, dal loro arrivo qui, nella domanda di richiesta di asilo, e nella strada verso la completa autonomia.
Ci sembra importante, quindi, raccontare anche di loro: dei nostri operatori e delle nostre operatrici. Per questo abbiamo incontrato Kiran, mediatrice culturale per il Centro Astalli Trento, per farci raccontare quello che fa, ma soprattutto quello che significa per lei.
Da quanto tempo sei mediatrice culturale? E che cosa ti ha spinto a scegliere questa strada?
Ho fatto questo lavoro per un anno e mezzo circa sei anni fa, poi ho dovuto smettere e ora ho ripreso. Era un lavoro saltuario e lo stipendio era basso, quindi con tre bambini era un po’ difficile… ma poi sono stata richiamata da Astalli con un’offerta di assunzione e allora sono stata felice di ricominciare.
In cosa consiste il tuo lavoro?
Faccio da interprete durante gli incontri tra operatori e utenti. Traduco principalmente quello che l’utente dice, in maniera il più possibile precisa. Gli incontri possono essere molto pesanti, non solo perché richiedono tantissima concentrazione e spesso c’è difficoltà nel capirsi. Ma soprattutto perché queste persone hanno bisogno, urgenza di raccontare la loro storia, e vogliono poter dire tutto, senza essere interrotte in continuazione per permettere la traduzione. Inoltre, spesso capiscono se stai traducendo davvero quello che intendono loro, perché un po’ di italiano lo sanno. C’è una grandissima responsabilità nel tradurre le loro testimonianze, le loro storie, soprattutto sapendo che queste verranno poi analizzate e giudicate, quindi ogni parola può essere importante. Spesso le persone pakistane danno per scontato che, dato che sono pakistana anch’io, devo per forza capire. Ma io sono qui da tantissimi anni e sono integrata qui, quindi non sempre è così.
Quali sono invece gli aspetti del tuo lavoro che ami di più?
La cosa più bella del mio lavoro è incontrare la gratitudine delle persone. Soprattutto di quelle che ottengono la protezione, che spesso danno a me il merito della cosa quando ovviamente non è così - è la loro storia, è una cosa che è loro dovuta - ma sono molto grate perché grazie a me hanno potuto comunicarla. E anche la gratitudine degli operatori e delle operatrici, che riescono a fare bene il loro lavoro grazie alla mia mediazione. Quel “grazie” è più gratificante della paga per me.
Un’altra cosa bella è stata la soddisfazione di essere assunta. Essere chiamata per lavorare qui mi ha dato modo di rendermi conto che sono davvero brava in quello che faccio, mentre noi donne spesso tendiamo a sminuirci o ad attribuire i nostri meriti alla fortuna! (ride)
C’è qualcosa che ci tieni particolarmente a raccontare della tua esperienza fino ad oggi come mediatrice culturale? Qualcosa di particolarmente significativo per te? O magari qualcosa che hai ascoltato nel corso della tua esperienza che ti ha colpito in modo particolare?
La cosa che più mi colpisce ogni volta è ascoltare il racconto dei viaggi di queste persone. Sono veramente forti, per affrontare viaggi come questi, viaggi terribili. Loro mettono in gioco letteralmente la loro vita e non hanno nessuna garanzia di salvarsi. E ogni volta penso, possibile che per salvarsi la vita una persona debba fare un viaggio del genere?! Molte persone durante il viaggio perdono dei cari, e non riescono a dare questa notizia alle famiglie lontane, quindi prendono tempo, dicono che non sanno…
Qual è l’impatto che questa esperienza ha avuto o ha nella tua vita? Pensi che abbia cambiato il tuo modo di vedere certe cose?
Sicuramente è cambiato il mio modo di concepire il viaggio. Ed è una consapevolezza che fa anche stare male. Ti rendi conto che le piccole cose che a noi mancano non sono realmente importanti. Ma finché non ascolti queste storie con le tue orecchie, non lo capisci. Da madre, ascoltare storie di donne che hanno dovuto lasciare i loro figli, e non sanno se questi sono al sicuro… mi fa pensare, io sarei capace di lasciare mio figlio, anche solo per un giorno? Non ce la farei. E loro infatti soffrono tantissimo.
Se dovessi descrivere questa tua esperienza con una parola, quale sarebbe?
C’è una cosa particolare che contraddistingue il mio sentimento rispetto a questo lavoro, ed è il rapporto che si crea con le donne pakistane. Io sono in Italia da 24 anni, da quando avevo 8 anni. Mio padre è qui da 32 anni. I miei genitori sono sempre stati aperti con me, e le donne pakistane che incontro rimangono sorprese di fronte alla mia libertà. Le sorprende molto scoprire che lavoro. Sono una donna autonoma, una madre lavoratrice, e la cosa bella è che questo mi rende una sorta di modello ai loro occhi. Dovreste vedere quando scoprono che so guidare! Sembrano come bambine quando dai loro un cioccolatino, sono molto ammirate! Io sono stata una delle prime ragazze pakistane qui a Trento a prendere la patente. Ed è bello per loro, perché vedere che qualcuna l’ha fatto prima apre come una strada, una possibilità…e perché si crea un rapporto di stima ma anche di fiducia. Quando scoprono che il mio lavoro è fare la mediatrice per loro, si sentono più sicure, si fanno accompagnare anche agli uffici… con le donne, infatti, faccio anche molta attività di volontariato. Con gli uomini è un po’ più complesso… Loro spesso hanno una concezione della donna per cui è inconcepibile che io dica loro cosa fare, che io lavori… prima i loro commenti mi mettevano a disagio, ma adesso ho imparato a distaccarmi da questo: è solo uno degli aspetti del lavoro.
La testimonianza di Kiran è la prova del fatto che, nel raccontarsi l’un l’altro, risiede una enorme ricchezza. Dietro ai singoli progetti che gestiamo come associazione, di fatto, si nascondono tantissimi, preziosi incontri tra persone, incontri che possono avere sfaccettature diverse, hanno in sé infinite possibilità.
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